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      Voi possedete un tesoro che vi permette di comunicare con tutte le finestre della facciata dell'edificio che vi ospita e delle facciate degli altri raggi congiunti col vostro.
      Mi spiego con un esempio.
      Supponete che io occupi una cella al primo piano di un ambiente di cento finestre. Le finestre sentono dell'aguzzino. Vedute all'esterno, sembrano grandi buche da lettere incorniciate in un rialzo di granito. All'interno, spaventano il novizio. Hanno l'inferriata staccata dal pietrone che si protende in fuori e impedisce di vedere le altre finestre e di agguantare la funicella che penzolasse dinanzi.
      Io ho un solfanello e tutti gli altri miei colleghi della mala vita vogliono fumare. Il solfanello del buon prigioniero deve sempre essere di legno. Con uno spillo, del quale un vecchio frequentatore di carcere deve essere munito, a costo di nasconderselo nella pelle, lo apro in quattro.
      Metto i tre quarti nel ripostiglio più recondito della cella, e mi servo dell'altro per accendere un po' di lisca ravvolta in un mucchietto di filacce per impedirgli di divampare. Con poco solfo sulla capocchia, sarei un cretino se mi dimenticassi dell'esperienza dei miei colleghi. La quale è che non si deve mai passare allo sfregamento senza prima avere strofinato ben bene un bottone di metallo o un chiodo delle scarpe o un legno qualunque.
      Sfregando leggermente sulla parte calda o infocata voi potete scommettere che farete pipare tutti.
      I miei amici del Cellulare sono tutti pronti e non aspettano che il segnale che può essere uno starnuto, o un colpo di tosse, o anche una battuta di mano.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





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