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      Non ho che una pallida idea della ferrovia. Non ci fui che da inquisito e da forzato. E, anche come tale, me la ricordo come un cubicolo di punizione.
      Non saprei del telefono se non ne avessi veduto l'apparecchio in Direzione, e ignorerei completamente la luce elettrica, se da qualche mese non ne fosse illuminato lo stabilimento. Pensate, sono vent'anni che non esco da questa casa. Venti anni che faccio le stesse scale, che percorro gli stessi corridoi, che incontro, si può dire, le stesse facce, che mangio la stessa pagnotta e la stessa minestra, che ubbidisco alle stesse voci e che mi alzo e mi corico al suono della stessa campana. Ho dimenticato la forma delle lettere. Non ne ricevo più da un secolo. Mia madre è morta e i pochi che mi scrivevano mi hanno seppellito nella loro memoria. E mi facevano tanto bene le lettere! Una lettera era un avvenimento che mi commoveva i nervi cerebrali in un modo straordinario. La tenevo nella mano trepidante e la leggevo per una settimana, piangendo, ricordando, facendo sogni di rivedere tutto ciò che avevo perduto, e poi, sazio, la mettevo con le altre e ricadevo nell'insensibilità di prima.
      Il passato non ha più alcuna presa su me. Non vivo più di esso e per esso come nei primi tempi. Non ho più rimpianti, non ho più aspirazioni. La mia vita è finita, completamente finita. Lo stesso mio delitto pare diventato il delitto di un altro. Posso rivedere il sangue che usciva a fiotti dal collo di mia moglie e riudire le sue ultime grida senza che si accenda il mio polso o si acceleri la palpitazione del mio cuore.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





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