Avete ragione di interrompermi. A voi importa poco il mio stato d'animo. Voi non volete del condannato che i patimenti, ed eccomi a compiacervi.
Sono della provincia di Avellino e nato nel '48. Facevo il massaro, e il ganzo di mia moglie adultera era il figlio del padrone. La mia causa durò più di cinque anni e al terzo processo venni condannato dalle Assisie di Salerno, come da quelle di Avellino e di Benevento, all'ergastolo.
La sentenza mi fece l'effetto di una legnata sulla testa. Caddi sul banco degli accusati come istupidito. I carabinieri mi dovettero scuotere e trascinare fuori della gabbia. Sono passato, tra la folla che aspettava di vedermi, con il cervello confuso e gli occhi vitrei. Erano fissi in terra e non sentivo che le fiamme alle orecchie. Tra un processo e l'altro, ero obbligato a passare da una prigione all'altra. Il modo di traduzione, ai miei tempi, era feroce. Ogni prigioniero era considerato e trattato come un brigante.
Per andare, per esempio, da Ariano, il mio paese, ad Avellino, mi facevano fare quattro tappe, in quattro paeselli, dove era la caserma dei carabinieri, con la camera di sicurezza. La stanza di sicurezza era un luogo di tortura, buia come una cantina e larga come una tana. Rimanevo perduto nella foscaggine per dieci minuti senza raccapezzarmi il luogo. C'era, di solito, una finestrucola all'estremità della parete rasente il soffitto, armata di due bastoni di ferro in croce, e un tavolato con una secchia in un angolo. Vi si respirava un'aria malsana.
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