Il supplizio incominciava quando mi si mandava a dormire. Me ne ricordo ancora con dei brividi. Mi si faceva sdraiare con i polsi nei ferri, mi si ordinava di mettere le gambe nei cavi di un rialzo ai piedi del tavolato, il carabiniere vi calava sopra la stanga che chiamavano ceppo, la chiudeva baciata al rialzo con un grosso lucchetto e mi lasciava così fino all'indomani. Ogni movimento equivaleva a un dolore atroce e a una scorticatura che diventava, con le ore, ardente. Legato e adagiato in questo modo, non avevo, per i bisogni corporali, che i calzoni.
Non ero ancora condannato e potevo essere innocente e già mi si sottoponeva a un castigo infernale! Mi alzavo dodici ore dopo con le ossa rotte e le carni indolenzite. Intorno ai malleoli e ai polsi, erano le strisce lividastre dei tormenti notturni. Mangiavo il pane che mi davano. Pane che mi si rompeva sotto i denti come un impasto di terriccio e ghiaia minuta. Nessuno potrà mai descrivere il pane dei miei tempi. Quello d'oggi, risovvenendomi dell'altro, mi pare del pane di lusso. L'acqua del secchio era sempre fetida. Pareva attinta in un pozzo dall'acqua stagnante; qualche volta sentiva della rigovernatura. Lamentarsi voleva dire inferocire il personale di custodia. Supino sul tavolato, non m'immaginavo che m'aspettava qualcosa di peggio.
Nelle carceri di Avellino mi trovavo in una parte dell'edificio chiamato dei "ferri", perchè non vi mandavano che galeotti o individui che stavano per diventarlo. Era, tutt'assieme, un corridoio composto di quattordici o sedici stanzoni, in ciascuno dei quali venivano chiuse cinque persone.
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Avellino
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