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      Quando entrai in questo ambiente, c'erano cinquantotto individui condannati ai lavori forzati a vita, e dodici alla pena capitale. I condannati a morte facevano pietà. Passavano da un'ansia all'altra. Ogni mattina, per dei mesi, si aspettavano di sentirsi dire che il momento di prepararsi era venuto. Io ero ignorante di legge. Ma dicevo che era una crudeltà senza nome tenere la gente in questa condizione tanti mesi. Trenta giorni di questo strazio equivalgono bene all'attimo del cappio che fa vomitare la vita.
      Di questi infelici, ne conobbi, intimamente, due. Ora l'uno e ora l'altro mi raccontavano la loro paura di morire. Avevano una grande speranza nella clemenza di Vittorio Emanuele. E io li aiutavo a nutrirla. I loro nomi erano Alfonso Minetti e Carmine De Vito. Il primo aveva accoltellato il padrone a morte, e il secondo aveva fatto a pezzi una donna con la scure. Una mattina che eravamo al passeggio e parlavamo appunto della grazia sovrana, venne una guardia a chiamare il De Vito.
      - Ti vuole il signor direttore.
      Supponevamo che fosse stato chiamato per la comunicazione della grazia. Ritornò la guardia senza il De Vito a chiamare il Minetti.
      - Ti vuole il signor direttore.
      Non vidi più nè l'uno nè l'altro. Seppi poi che erano stati condotti in cappella per la preparazione. Quando c'ero io, i sentenziati a morire venivano legati alle mani e ai piedi per il resto della loro esistenza, vale a dire per tre giorni e tre notti. Era una precauzione che impediva loro di sottrarsi alla condanna con qualche atto insensato.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





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