Se non avessi che i suoi versi in cella, farei voto di non leggere pių mai. Un suo verso mi provoca il vomito.
Il solo spasso che riuscii a conquistarmi a furia di preghiere e di sottomissioni, fu quello di fare le calze. Non ridete, perchč facevo ridere anche il mio compagno di catena, ma io, coi ferri, con la lana e col cotone, ho passato giornate relativamente tranquille. Tra una soletta e l'altra, mi si addormentava l'idea che dovevo morire alla servitų penale. A mano a mano che i miei ferri divenivano abili e frettolosi, riacquistavo la calma che avevo perduta. Mi confortavo dicendomi che ce ne erano delle migliaia nella mia condizione, che non uno di loro disperava di rientrare nel mondo. Il mercante di Genova, che ci somministrava la lana e il cotone, mi fece sapere che era contento dei miei calzini. Provai a fare delle calze traforate. Le prime non erano eleganti, ma in seguito non c'era pių nessuno nello stabilimento che mi potesse tener dietro. Quando si voleva illustrare la gamba con delle calze scicche, si ricorreva, senza esitazione, al 3414.
Due anni dopo ero stufo di calze come di Dante. Lavoravo per ammazzare il tempo. La mia anima trambasciata non era pių nel lavoro. Era la praticaccia che me lo faceva fare ancora con del gusto. Incominciavo a credere, col mio compagno, che sciupavo il tempo nel mestiere della vecchia sdentata che assecchisce sotto la cappa del camino. L'abitudine del movimento aveva resa inutile la mia attenzione. Cosė il mio pensiero sbrigliato mi ripiombava, di tanto in tanto, a filosofare sulla mia incommensurata disgrazia.
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Genova Dante
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