Il Carbone mi diceva che la sua famiglia era agiata e possidente. Con lui si presentarono al Pallavicino, che li aspettava per farne una retata, quattordici della banda - nove dei quali vennero condannati a morte, cinque a vita e Vincenzo Volpe, minorenne, a venticinque anni.
I condannati a morte erano: Carbone, Ciavo, Longo, Vertuto, Cozzi, Palombo, Zorio, Savalino, Perrone. Tutti costoro rimasero per qualche anno sotto la sentenza capitale. Ogni mattina, per quattro anni, si toccavano la testa. Graziati da Vittorio Emanuele, vennero al Castellaccio.
La crudeltà del Carbone brigante è in uno dei suoi ultimi delitti. Egli era riuscito a impadronirsi di una spia che aveva tentato di farlo ghermire dai gendarmi. Avutolo nelle mani, lo buttò a terra a ceffoni. In terra gli andò sopra coi piedi, calcandoglisi sulla pancia e lavorandogli il naso e la faccia colle scarpe ferrate. Quando fu sazio di questi scherzi crudeli, compiuti alla presenza della banda che sputava sull'infelice tutto ciò che poteva tirar su dalla gola e lo bruttava con tutte le ingiurie brigantesche, lo fece svestire e stare in piedi. Il Carbone era seduto. Lo puntava qua e là col coltello intanto che gli altri indemoniavano sulla schiena e sulle natiche del paziente.
Lui, prima di andare a mangiare, gli sprofondò ripetutamente il coltello nel corpo fino a quando lo vide esalare l'ultimo respiro. Senza lasciarlo venir freddo, gli fece una larga ferita nel ventre, raccolse le viscere fumanti e se le attorcigliò a torno il braccio come un trofeo di vittoria.
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