È nitida e arieggia l'inglesino. Non è quella dello scrittore che va via all'impazzata e lascia agli altri la briga di capirla. Se il pane terroso non gli aveva fatto peso o non gli aveva gonfiato il ventre, il pensiero gli si sgomitolava senza interruzioni. Giornalista col fondaccio letterario, gli piace, quando non è infuriato dalla rotativa, rifare il manoscritto, senza toccarlo troppo o levargli la naturalezza della prosa spontanea. Il suo stile è pastoso, la sua prosa calda, la sua penna duttile, il suo periodo limpido come un cristallo. Con qualche predilezione per la frase pariniana, rifugge dalle inversioni del poeta del Giorno, che svogliano il lettore. L'ingiustizia gli scalda il calamaio e gli fa produrre una prosa vigorosa, senza ridondanze e senza i plebeismi del Baretti. Con o senza collera egli non è mai volgare. Il suo ingegno poliedrico fa pensare a don Margotti. La tendenza sentita negli scritti di don Davide è la mestizia o piuttosto l'emozione.
Le tre mila lettere ch'egli ha scritto durante la sua prigionia - lettere che potrebbero formare, per il pubblico cattolico, un epistolario interessantissimo - ne sono un documento. Sono in esse la sua bontà infinita, lo spandimento della sua anima mal rassegnata a stare in prigione, l'affezione intensa per la gente ch'egli ama e che lo ama, il perdono incommensurato per tutti gli avversari pentiti che gli hanno tribolata l'esistenza a 52 anni, proprio quando, diceva lui, si ha bisogno di un po' di vita buona.
In prigione non ha mai avuto rimpianti.
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