Romussi era al suo tavolo che scriveva non so più che cosa sulle ultime notizie. Il delegato, col codazzo dei questurini in borghese, gli annunciò la perquisizione e credo anche la sospensione del giornale. Romussi disse qualche parola sulla libertà di stampa e lasciò che l'uomo di questura andasse a mettere sottosopra il suo cassetto e a rovistare le carte del tavolo unito a quello di lavoro. Per la maledetta abitudine di Romussi di accumulare i manoscritti gli uni sopra gli altri per un anno di seguito, gli sequestrarono un numero infinito di carte e di lettere, non poche delle quali dovevano essere di Cavallotti. Suggellati i pacchi e fatto il verbale di sequestro, Romussi e Girardi vennero invitati in questura. Romussi, prima d'andarsene, voleva scrivere due righe non so se alla moglie o ai colleghi. Prima di sedere buttò via la penna con la quale aveva scritto il delegato, diede un calcio alla sedia, sulla quale era stato seduto e ordinò al portiere di portarla via subito e di bruciarla.
- Portamene un'altra e dammi un'altra penna.
Alla mattina ci svegliammo con le ossa rotte. Avevamo sulla faccia il colore di una notte trambasciata. Ci eravamo coricati sul tavolazzo, vestiti come eravamo entrati, e lungo la notte il sonno ci era stato interrotto centinaia di volte. Dal fracasso degli usci che si aprivano e si chiudevano, dal trambusto, nel cortile, dei soldati che pareva arrivassero ogni quarto d'ora, dai piedi che tumultuavano sotto il portico e dalle voci che giungevano a noi come di gente ammutinata.
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