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      Si acciuffavano, si gettavano alla testa manate di fango, si sbracciavano e si accusavano colla veemenza dei leticoni invecchiati e si contendevano l'agonia di una agitazione, che aveva convulsionato il regno, colle esecrazioni dell'avaro disilluso sul credito. La Charta - il primo documento immortale del proletariato inglese moderno - divenne il bersaglio di tutte le loro escandescenze. La laceravano, la frantumavano, la malconciavano, la rattoppavano e se la sbattevano sulla faccia come una accumulazione di miserie umane. Tutti, compreso O' Connor che aveva gettato nel movimento centotrenta mila sterline, compreso Ernesto Jones che si lasciò diseredare dallo zio di una rendita di due mile sterline all'anno piuttosto che rinunciare al chartismo, dopo il naufragio non erano più che dei "mercenari", dei "venduti", dei "demagoghi prezzolati". L'uno denunciava il despotismo dell'altro e l'ultimo parlava del primo come di un farabutto e di un vigliacco. Branterre o'Brien che aveva sofferto diciotto mesi di carcere per parole che non aveva mai pronunciate, Ernesto Jones che aveva scontato due anni di reclusione, Giorgio Giuliano Harney che aveva dato tutto il suo ingegno e il suo entusiasmo, A. G. Gammage, il calzolaio divenuto medico e storiografo, Tommaso Cooper, il "leone della libertà" e tanti altri che si erano illustrati colla penna e colla parola nella difesa dei diritti dei lavoratori, in queste giornate di sfasciamento sfilavano come una geldra di lenoni della plebe che avessero fatto pancia.


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L'insurrezione chartista in Inghilterra
di Paolo Valera
Uffici della Critica Sociale Milano
1895 pagine 125

   





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