Vado all'estero
Non so se ho fatto bene o male. Non ho voluto ricorrere in appello. Avrei dovuto rimestare il bagout dei palcoscenici dialettali, riacciuffarmi coi vecchi legulei in toga. Tirai innanzi. Se non avessi avuto vergogna avrei pianto. Mi ero battuto male. Con guitti senza idee. Con prime donne che avevano fatto della prigione come peccatrici d'alcova. Ero preceduto da un baule. Ero triste. Pareva proprio che me ne andassi con la patria sotto le suola delle scarpe. Forse facevo della rettorica. Prima di giungere alla stazione centrale venni avvertito dall'avvocato della ferrovia, Galateo, che gl'istrioni del teatro milanese erano là ad aspettarmi per una fischiata solenne. Volevano far credere che mi mandavano all'estero a grandi grida. Rinunciai alla colluttazione, alla mischia, allo scontro personale. Tornai su me stesso. Ero pedinato. Non avrei potuto partire. Era gente che non potevo più vedere. Quello che era stato era stato. Mi avviai verso Como, mio luogo di nascita. Salii in una stazione intermedia e mi trovai al grotto del Nino dove ho fatto colazione con degli agoni eccellenti. All'indomani fui a Parigi con una lettera di presentazione per Jules Vallès, datami da Enrico Bignami, suo grande ammiratore. Troppo tardi, egli aveva già abbandonato la capitale francese per quella inglese. Sul piroscafo il fuggiasco era stato sorpreso dal telegramma di uno sconosciuto che gli aveva lasciato morendo 60 o 70 mila franchi perché passasse meno male l'esilio. Lo scrittore di fama comunarda non aveva lasciato che gente prudente.
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