Redattori, siete dei vigliacchi!"
I blanquisti erano divenuti una forza. All'Assemblea Nazionale Blanqui con una eleganza fredda come una lama di Toledo denunciò i massacri di Rouen, dicendo che la Repubblica, pena la morte, doveva sollevare le sofferenze dei proletari e preparare l'avvento a uno Stato sociale più giusto. La reazione lo mise di nuovo in prigione. Ma anche sotto chiave Blanqui venne dichiarato l'autore della sommossa del 17 marzo e il più grande insurrezionale dell'epoca.
La figura fisica di Blanqui fu questa. Piccolo, esile, con la testa rasata come quella di un monaco, degna del pennello di Holbein. Occhi perduti nelle occhiaie fonde dardeggianti lampi fulvi. Viso ammantato di un pallore malaticcio. Corpo piegato sotto il triplice peso delle sofferenze fisiche, delle torture morali e della costituzione rachitica. Nulla era in Blanqui che rivelasse il cospiratore tenace e l'oratore indomabile dei clubs rossi. La rivoluzione in lui era un culto. Egli non attirava, dominava. La sua voce non affascinava. Era stridente, acuta, sibilante, metallica. Comunicava tuttavia la febbre. Sentiva di lui, del suo carattere, aspro, selvaggio, enarmonico. Voce che segava sovente i nervi. La sua caratteristica era la violenza fattistica. Vale a dire nutrita di fatti. Faceva discorsi energici, presentava mozioni virulente. Era sempre e dovunque freneticamente applaudito. Aveva un'immaginazione furiosa, uno spirito turbolento.
Della Comune non ha veduto che l'inizio. Thiers lo ha fatto agguantare come una vita preziosa e chiudere come ostaggio in una prigione di provincia.
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