L'Enotrio Romano scomparve. Fece bene. Non poteva sopravvivere alle sue maledizioni antimonarchiche. Un giorno fu tanto ingenuo da consigliare il sovrano a buttare la corona oltre il Po. Fu l'ultima sosta di Enotrio Romano. Egli voleva farsi il tribuno armato della rivoluzione italiana e sciogliere il voto nazionale a Roma. Tempi dei rompicolli. L'autore delle "odi barbare" aveva capito che egli passando all'altra riva sarebbe stato possente. Il divinizzatore di Robespierre si è gettato in piazza completamente monarchico. L'ode alla regina non era sua. Gliel'avevano ispirata, suggerita. Tutti così questi poeti.
Tuttavia egli non ha voluto acconciarsi alla demolizione. Si credeva troppo alto perché i suoi ex inalzatori potessero gridargli abbasso! Eppure non fu più repubblicano. Neanche coi suoi dodici sonetti del Ça ira. È diventato, s'intende, più ricco. Vi fu un momento in cui egli ha riabilitato Francesco Crispi, quando circolava come il peggior ribaldo che abbia governato l'Italia. Il parlamento gli ha dato una pensione, la regina ha comperato i libri della sua biblioteca privata, le sue pubblicazioni andarono a ruba e a prezzi proibiti e durante le stagioni non ha fatto fatica a risalire a Madesimo a bere il vino delle vecchie cantine e l'aria fresca. Da cittadino era divenuto suddito. Cantava la patria. Indossava la redingote. Non era più l'uomo che doveva mandare a Sommaruga la prosa e la poesia per la Bizantina. Scriveva una ode barbara per un personaggio dei Savoia o per la figlia di Crispi o per Crispi e la sua edizione regia correva sui binari dei professori dotti ed eloquenti come nessun'altra.
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