Gabriele D'Annunzio non ha avuto ipocrisie. Per lui la sua penna è stata la sua bottega. Non lasciava mai il manoscritto ad Angelo Sommaruga senza il suo compenso. Non volle essere né cittadino, né suddito, né girondino, né giacobino. Ha fatto della poesia venduta al migliore offerente. Ha incominciato coll'essere una meraviglia della strada e del salotto. La gente lo guardava. Oscar Wilde attirava l'attenzione pubblica in America con un abito color bottiglia. Who is he? Si domandavano i passanti. Gabriele D'Annunzio con un superbo levriero, signorilmente macchiato, per le vie di Roma era l'attraction. Egli era in giro come un ragazzo di genio. La gente sapeva i suoi intermezzi di rime a memoria. Canzoni rudi, canzoni libere, canzoni di gran lietezza, di vita nuova. La prima gesta fu libidinosa. Coloro che prima lo avevano sparso come un portento, chiamavano in seguito la legge a sopprimere le sue impudicizie. Non vedevano nelle sue poesie che fango. Dalla sua letteratura passavano prostitute, si vedevano bordelli, vi scorrevano parole sconce e puttanesche. Egli era un tronco di corruzione. Cantava i lunghi languori che lo snervavano, i bei seni dalle erte punte, le reni feline e le bocche sanguigne per cui gli era dolce sfiorire. Lo si faceva diventare una mente pervertita, un immondezzaio politico, un padrone di sgualdrine.
E mentre mucchi di letterati e di giornalisti sono andati alla ricerca della verecondia, Gabriele D'Annunzio, circondato dal frastuono pubblico, si avviava da Roma a Firenze con una duchessina che si era gettata nelle sue braccia.
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