Col permesso può uscire e rimanere assente dalla levata alla calata del sole. I giornalisti in prigione rimangono sulla piattaforma. Condannati per reati di stampa è loro permesso scontando la pena di diventare recidivi. Peggio per loro se ripetono lo stesso crimine con prosa violenta. In Italia il detenuto politico è come il detenuto comune. È sottoposto alle perquisizioni oscene, alle insolenze, ai cattivi trattamenti, al vitto immangiabile, alle celle inabitabili, ai sacconi sudici, alla mancanza d'aria e di moto. Da noi si è feroci: mi si è negato perfino di vedere il mio vecchio genitore in fin di vita.
La sudiceria della Rocca era incredibile. Si leggevano sulle pareti iscrizioni vecchie di dieci anni. Gli usci e le finestre eran fracide. I vetri rotti e i rulli opachi lasciavano entrare pioggia, vento, neve, grandine. Il freddo intirizziva. Per scaldarci bisognava pestare i piedi, sbattere le braccia, fiatarci sulle dita. La notte invernale era di sedici ore lunghe, noiose, terribili, in cui il prigioniero si voltolava fra le lenzuola ruvide e gelate, in un silenzio di tomba. Io tossivo nel supplizio. Si andava in cella di rigore a pane e acqua per i minimi rumori. Ci si gettava nella buca sotterranea, nudi, condannandoci a sdraiarci sulla lastra di marmo bagnata e ci si chiudeva dentro senza coperta, con la finestra spalancata sul capo.
Un giorno quando meno me l'aspettava, ho avuto la grata sorpresa di abbracciare mia sorella. L'emozione è stata grande, era la gioia mi è stata diminuita dalla presenza del sottoprefetto, dell'ufficiale dei carabinieri, dei delegati, dei birri in civile e degli sgherri.
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