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      Io, che non mi lascio sorprendere da nulla, che nulla m'abbaglia e m'entusiasma, io che non fui sorpreso nč commosso riacquistando la libertā dopo dieci anni di Caledonia e che mi lascio guidare in tutto dalla ragione, oggi ricordando pacatamente questo momento della mia vita, non so spiegarmi nč perdonarmi l'impazienza febbrile che s'era impossessata di me. Che fosse un tacito presentimento dell'uragano che rumoreggiava sul mio capo, della grandissima sventura che mi sovrastava? A tutto pensavo, tranne che all'Egitto, a Santini, alla galera.
      Tutto congiurava ad aumentare la mia inquietudine. Le lettere che nei primi mesi erano rarissime, nel momento dell'amnistia mi pervenivano da tutte le parti, piene di affettuose felicitazioni e augurii e inviti fraterni.
      Qualche amico di Milano mi annunciava che stava preparandomi l'immortale risotto; a Napoli mi aspettavano i leggendarii maccaroni; a Rimini avrei avuto l'antichissimo brodetto; a Ravenna avrei mangiate le anguille marinate; a Bergamo, a Brescia la democratica polenta e uccelli; a Bologna la grave e succolenta pasticciata. I toscani, ameni sempre e sempre spiritosi avevano pensato all'inaffiamento di tanta roba. Amilcare, mi dicevano, tu che hai sofferto la sete nei lunghi dieci anni sotto la zona torrida e che devi avere la gola asciutta come un sughero, vieni, ti abbiamo preparato un Imalaia di fiaschetti. I veneziani si erano promessi di trasformarmi in una zucca barucca.
      Era un supplizio. Avevo la febbre di uscire. Non potevo pių stare seduto.


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L'uomo pių rosso d'Italia
di Paolo Valera
Arti grafiche Lampo Novara
1933 pagine 69

   





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