Amilcare Cipriani.
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Ritorniamo al momento tragico. Dopo l'istruttoria risalii alla mia cella talmente accorato che rimasi tre giorni senza mangiare. Ma poi, la ragione prevalse. Mi sentivo quello che ero. Disprezzai le mene inique per perdere un nemico politico. Non mi considerai perduto. Non ho sbagliato.
Gli sgherri non potevano farmi un gran male per farmi sentire la differenza che corre tra il detenuto politico e il detenuto per reato comune. Ma me la fecero sentire tutte le volte che hanno potuto. Mi tolsero i pochi foglietti scritti che portavo in tasca, le lettere di famiglia e mi fecero angheriucce sbirresche che io disprezzavo. Prima mi si portava il cibo in una tazzina comperata coi miei denari. Dopo me lo si dava nella gamellaccia pių sozza che ci fosse al cellulare. Andai per mangiare e vi trovai un mozzicone masticato. M'accontentai di un tozzo di pane. Il giorno dopo vi trovai un pizzico di peli, di schifosissimi peli. Il terzo giorno vi avevano buttato un pugno di cenere e di carbone. Non toccai pių la gamella e senza lagnarmi per non udire che io ero un detenuto comune. Vissi due mesi a pane e acqua. Ammalato e spossato un giorno mi sono fatto comperare mezzo litro di latte. Me lo portarono in un vaso di rame non stagnato. Č mancato poco che non morissi avvelenato dal verderame. Sfinito ho cercato di tirarmi su con un po' di vino che non bevevo da vent'anni, e due uova. Nel primo erano un centinaio di mosche. Le seconde erano putrefatte.
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Cipriani
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