Un altro si sarebbe messo le mani nei capelli. C'era di che fremere. Risi. Nel voluminoso scartafaccio si parlava di un lungo pugnale col quale avevo freddamente e premeditatamente ucciso lo sventurato Santini che veniva ad abbracciarmi amorevolmente. Con l'arma ancora fumante del suo sangue l'immersi ripetutamente nel petto della sventurata guardia. Non mi difendo, non mi sono difeso sul banco d'accusa, abituato a disprezzare le calunnie, sopratutto se vengono dai togati. Ma tanto per esalare un po' lo sdegno dirò che i giudici questa volta mi calunniarono col proposito deliberato. Tutto il processo è stato una menzogna. È in questo intervallo che mi sono veduto venire in cella «un amico di Ravenna» come diceva lui, incaricato dagli amici di domandarmi se avevo bisogno di qualche cosa. Era una spia. Io l'avevo subudorato subito. Erano su lui le stigmate del suo infame e bassissimo mestiere. Egli era una ditta, un ceffo che si poteva riconoscere a prima vista. Sguardo bieco del cane arrabbiato, incerto, tremante sotto lo sguardo altrui. Capo chino, sempre inclinato dalla parte opposta dove si guarda; andatura bislacca, corpo rigido. Un simulatore. Parola umile. La sua vocazione era tutta nel portamonete. Mi accontentai di spiatellare una sdegnosa e sonora risata sul grugno della spia rinnegata.
Ai 22 di febbraio io non sapevo ancora niente del mio processo. Conoscevo solo l'accusa principale. In quella stessa mattina mi venne presentata la lista dei giurati scelti dal procuratore generale Costa.
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Santini Ravenna Costa
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