Un dopo pranzo più triste e più annoiato del consueto, con idee funebri per la testa, mi arrampicai alla finestrella per il bisogno immenso di vedere un pezzo di cielo. Ho udito che nella cella vicina doveva essere qualcuno con le grosse maglie della catena del galeotto. Tacqui. Discesi tutto sudato. Corsi all'uscio e bussai. Domandai al guardiano chi abitava la cella n° 13, accanto alla mia. Mi rispose che era un giovane di vent'anni, condannato a vent'anni. Vent'anni di catene! Una eternità! In quel momento condannato, decisi di sopportare la seconda Caledonia con disprezzo e disinvoltura. Incominciai a famigliarizzarmi guardando un uomo che non aveva più nulla dell'uomo. Il fragore delle sue catene al passeggio mi lasciava tranquillo. Mi persuasi. Lacerai tutti gli scritti, tutte le lettere; feci la valigia, attesi cento volte più vigilato di prima. Non mi si dava tregua. Dormiva, mi si svegliava. Leggevo, si entrava a perquisire, a battere i muri, le inferriate, a mettere tutto sottosopra.
Ero a letto febbricitante.
- Signor Cipriani, entrò a dirmi il direttore, bisogna armarsi di coraggio. Sono venuti a prenderlo per partire.
In un attimo la mia cella fu zeppa. Entrarono delegati, commissari, agenti, guardie. Non mi hanno lasciato che il tempo di mettermi le gambe nei calzoni. Mi hanno condotto via in ciabatte, ammanettato e caricato in una carrozzella chiusa con cinque carabinieri che mi pigiavano da tutte le parti. Mi incatenarono le gambe. Lungo il passaggio c'erano agenti e carabinieri.
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Caledonia Cipriani
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