Calò l'ancora a Portoferraio. Si discese e si fece la strada al carcere a piedi. Nella cella non ho potuto dormire. Le cimici mi dissanguarono. Alla mattina ricominciai la via crucis. Risalii sull'«Elba» e in tre ore fui a Portolongone. Mattinata fresca. Scesi in una lancia affollata di carabinieri. L'ultimo segno di simpatia mi era stato dato dal timoniere dell'«Elba». A terra altri carabinieri. C'era sempre la preoccupazione che io venissi liberato da una aggressione socialista. Ero ansioso di giungere alla mia destinazione e seppellirmi nella cloaca che avevo deciso di accettare senza scoraggiamento. Il tragitto mi parve lungo. Salimmo per la collina dove è il forte. Brutta impressione. Il fabbricato in cima era tozzo, massiccio, barocco, cupo, sinistro e maledetto. La sua fama infame mi era nota. Aveva inghiottito parecchi socialisti vittime dei furori politici. Direttore Banago: capo-guardia Carlo Lamberini. Ci attendevano. Attraversato il piazzale, passai il cancello dell'ergastolo con i gendarmi e le guardie carcerarie. Notai che erano le otto antimeridiane del 13 luglio del 1882.
Venni alloggiato nella cella n. 13. Mi si fecero indossare gli abiti matricolati. Io non ero più che il numero 2403. Sono stato fotografato. Subito dopo passai sotto l'operazione di un galeotto che mi fece cadere barba e capelli. Le mie sofferenze intime durante la toeletta vergognosa le lascio nella penna. Dovrei piangere e io non sono abituato alle lagrime. La cosa più penosa è stata quella di allungarmi in terra perchè mi ribadissero le catene.
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