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      (139) Sermones Fideles, IX, de invidia. Aristotele, lib. 2, de arte dicendi, estima che l'invidia abbia piú spesso luogo ne' beni della fortuna che dell'animo. Io non saprei se ciò fosse vero. Perciocché dice bene Orazio, Carmin., lib. 3, od. 24: «Virtutem incolumem odimus, / Subiatam ex oculis quaerimus invidi». E l'invidia è, quando alcuno mal soffre, che altri l'avanzi ne' beni dell'animo, o del corpo, ed in un certo modo li vede con animo iniquo: onde Cicerone disse invidentia. Mentre crede che oscurino la propria luce i raggi altrui. Ha principalmente l'invidia luogo fra gli eguali: perché la disparità maggiormente risalta, ove i simili si conferiscano, e paragonino. Ed è molto debole l'invidia contra coloro, che di molto avanzano altri, e sono perciò d'ogn'invidia maggiori. Orazio, IV, od. 3: «Jam dente minus mordeor invido». L'invidioso fomenta la sua infelicità. Orazio, lib. I, epist. 2: «Invidia Siculi non invenere Tyranni / Majus tormentum». E Laerzio, lib. 6, In vit. Antist., fu solito dire: «sicuti aerugo ferrum, ita invidia animum hominis, ubi insita est, consumit». Quindi per translazione chiamarono l'invidia aeruginem Marzial., lib. X, epigr. 33; Oraz. lib. I, sat. 4. Del resto il nostro volgar detto, è meglio invidia che pietà, è molto antico. Pindaro in Pyth., od. I, scrisse: Àll'òmos, kreìsson gàr oìktirmon ftònos. («Veruntamen melior miseratione invidia est»).
      (140) Galeno, de loc. affect., III 7, VI 5.
      (141) Langius, lib. 2, epist. 36.
      (142) Lib. III, epigr.


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Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura
di Nicola Valletta
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