Questi fatti nuovi, che da così diverse parti deponevano a favore dell'esistenza di un gergo segreto e di una dottrina segreta nella poesia dei «Fedeli d'Amore», consigliavano di tornare con animo più sereno e più obiettivo e con un serio e pacato esame all'ipotesi di Gabriele Rossetti.
E questo io feci. Lasciai da parte le molte e complicate deduzioni e confusioni del critico poeta, ma lasciai da parte per un momento anche il grosso fardello delle idee confuse e contraddittorie che la critica «positiva», senza andar mai al fondo del problema, ci ha imposto nella scuola. Mi rimisi dinanzi alla poesia dei «Fedeli d'Amore», domandandomi semplicemente, se l'ipotesi che essa contenga un gergo e una dottrina segreta regga a un vasto esame comparativo di tutta questa poesia.
Mi valsi naturalmente dei risultati della critica filologica che mi dovevano risparmiare molti errori del Rossetti, ma misi in quarantena tutte le conclusioni che i filologi avevano elaborato intorno alla vera natura della poesia d'amore, e soprattutto gli sciocchissimi giudizi sommari pronunziati in quella materia.
Io feci questo semplicissimo ragionamento:
Il Rossetti afferma che in queste poesie d'amore alcune parole hanno un significato convenzionale, cosicché il vero senso di quelle poesie è completamente diverso da quello che appare al lettore ingenuo. Come risolvere la questione se ciò sia vero o no? Con un esempio o due o tre non si dimostra nulla. Con le chiacchiere generiche e aprioristiche: «Dante non poteva avere idee eterodosse», oppure: «Dante dovette parlare di amore nel senso umano della parola»; oppure: «La poesia a doppio senso è una cosa brutta»; oppure: «Qui, in questo sonetto io sento l'immediatezza e la spontaneità», ecc., con queste chiacchiere, dico, che possono moltiplicarsi all'infinito, non si può risolvere un problema come questo.
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