Se un primo esame obiettivo dell'atteggiamento generale dei «Fedeli d'Amore» ci induce a pensare come molto verosimile che essi parlassero in forma convenzionale e fossero stretti fra loro dai legami di un'iniziazione, d'altra parte questa ipotesi è potentemente confermata da una prima obiettiva considerazione del carattere delle donne che essi dicono d'amare.
Le donne? Ma si può veramente parlare di diverse donne nella poesia di questi «Fedeli d'Amore»? C'è una di queste donne che differisca in qualche modo dall'altra? Conosciamo di qualcuna di esse la fisionomia fisica o morale, il carattere, gli atteggiamenti, il volto? È qualcuna di esse veramente una persona viva? Si conoscono le parole dette da qualcuna di queste donne, che non siano parole stereotipate e insignificantissime? Si conoscono circostanze della loro vita, nomi sicuri, famiglie, vicende?
Nulla! Per decenni e decenni nella poesia italiana la donna non ha altro nome che «Rosa», proprio (o che bel caso!) il nome del mistico fiore della Persia e del misterioso fiore che si ritroverà meta dello stranissimo amore del Roman de la Rose e del Fiore! Anzi talora si chiama addirittura «Rosa di Sorìa» o «Rosa d'Oriente». Ma quando prende un nome di persona viva, diventa per questo più personale? C'è qualche cosa che ci faccia supporre una differenza vera tra Lagia di Lapo Gianni e Giovanna di Guido Cavalcanti all'infuori del nome?
Ecco, in mezzo a tutte queste donne impersonali ed evanescenti, una ne sorge che, in uno scritto posteriore di circa ottanta anni alla morte di lei, prende per la prima volta il nome di Beatrice Portinari e ha anche un marito.
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