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Si ha un bel dire che egli aveva idealizzato, trasformato, angelicato e sublimato la donna reale! Di fronte alla gente che aveva veduto passeggiare per le vie di Firenze la moglie di Simone, questo rappresentare proprio lei sul carro tirato da Gesù Cristo, non poteva non suonare come una sconvenienza e come una profanazione. Ma sconvenienza e profanazione non era perché, se molti chiamavano la donna di Dante Beatrice, «li quali non sapeano che si chiamare(44)» cioè ignoravano chi e cosa essa fosse, tutti quelli che avevano «intendimento» sapevano benissimo che cosa significasse Beatrice nella Vita Nuova e perciò vedevano con perfetta logica proprio lei sul carro della Chiesa guidato da Cristo. Ma ci sono le testimonianze storiche, si grida.
Esamineremo bene il valore di queste testimonianze storiche quando parleremo del «mito di Beatrice». Per ora basti osservare che la testimonianza storica principalissima a favore della realtà di Beatrice Portinari non solo viene fuori quasi ottant'anni dopo la morte di lei (e vale tanto quanto potrebbe valere la mia testimonianza messa fuori oggi per la prima volta sopra un amore infantile del Conte di Cavour), ma è resa da un «Fedele d'Amore» come era Giovanni Boccaccio, da un «Fedele d'Amore» che non avrebbe potuto esprimere la vera realtà di Beatrice senza rischiare il rogo e che, invece, doveva far di tutto per nascondere la vera essenza di lei; è una testimonianza che può essere presa sul serio soltanto dalla meravigliosa ingenuità di quella critica «positiva» che dovrebbe prendere sul serio anche il sogno simbolico della madre di Dante, inventato e spiegato artificiosamente per i gonzi dallo stesso Boccaccio.
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