quella che m'ha d'amor la mente cinta.(67)
È evidentissimo che qui si tratta della stessa donna e soltanto l'interpretazione simbolica ci può far comprendere questo violentissimo precipitare della corrispondenza dalle altissime sfere della contemplazione platonica a questo basso pettegolezzo col quale viceversa si mescolano ancora forme nobilissime. La donna è, come ho già accennato, tanto la Sapienza santa, sublime, unica, amata da tutti, quanto la setta che giudica e caccia i reprobi con grande gioia di quelli che le restano fedeli.
Ma v'è un caso nel quale la unicità della donna viene tradita in modo non dubbio. Dante, come vedremo in seguito, pur movendo dalla tradizione dei «Fedeli d'Amore», nella Divina Commedia presentò una concezione sua e nuova e potentemente originale della Sapienza santa, alla quale conservò il nome di Beatrice, e iniziò a quanto sembra un secondo periodo dell'attività della setta. Ebbene, quando fu conosciuta per intero la Divina Commedia, fu scritto un sonetto che va (non so con quanta ragione) sotto il nome di Cino da Pistoia. Chi lo rilegga non può dubitare minimamente che qui si tratta del risentimento di un «Fedele d'Amore», il quale accusa Dante di aver rappresentato come sua la Beatrice che era di tutti e di aver escluso dall'onorata nominanza Onesto da Boncima che si trovava, secondo colui che scrive, nella buona tradizione della poesia d'amore settaria, cioè dietro ad Arnaldo Daniello.
È un sonetto fondamentale per la comprensione dello spirito vero di tutto questo movimento.
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