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      .. e non invidieranno».
      Che cosa c'entrano questi «invidi»? Perché Dante allegava le parole di Riccardo da San Vittore contro gli invidiosi? Ma è evidente. Egli si poneva come uomo che realmente è giunto a conoscere le cose divine con l'excessus mentis, come colui che ha veramente conseguito l'atto della contemplazione oltrepassando il mondo umano e nel quale quindi era morta, come in San Paolo, Rachele, quella Rachele che per lui si chiamava Beatrice, e che per questo aveva potuto pervenire là dove «retro la memoria non può ire». Infatti quando Dante nella Vita Nuova dice che Beatrice morì, aggiunge quelle strane, misteriose parole: «Non è convenevole a me trattare» della partita da noi della Beatrice beata, perché «trattando converrebbe essere me laudatore di me medesimo(124)».
      Ecco come si ricongiungono le fila di tutti questi pensieri monchi, strani, incomprensibili. Dante dice che sarebbe laudatore di se medesimo se parlasse della morte di Beatrice e poi saetta contro gli invidi che irridono al trascendere del suo intelletto di là dalla memoria nella visione del Paradiso.
      Le due cose sono una cosa sola. Morire di Beatrice, morire di Rachele, excessus mentis, col quale si giunge all'atto della pura contemplazione, a Dio.
      E ancora una volta la caratteristica di Beatrice-Rachele così manifesta nella Divina Commedia, si ritrova nella Beatrice della Vita Nuova. Nella Vita Nuova, libro eminentemente mistico, si parla di questa mistica morte, e nella Divina Commedia il poeta sacro ascende, sì, a Dio per mezzo della sua Rachele, ma della sua Rachele che è morta, ascende con lei in quanto è morta(125).


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Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore
di Luigi Valli
pagine 879

   





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