«Non v'ha dubbio alcuno... che questo linguaggio non sia stato prima, nel suo significato vero e letterale, il linguaggio dei veri poeti d'amore; ma i mistici lo presero per sé non solo perché lo trovarono già fatto e acconcio a essere usato per metafora, ma ancora perché con esso poterono velare le loro dottrine pericolose a propalarsi apertamente, oggetto di esecrazione per tutti gli ortodossi. E vedremo più innanzi che alcuni mistici furono perseguitati a morte per le loro dottrine troppo libere e nuove»(133).
Ho ripetuto queste idee con le precise parole dell'illustre orientalista, perché se avessi riassunto io in questo modo quanto riguarda i mistici persiani, la critica «positiva» non avrebbe mancato di dire che io riassumevo tendenziosamente per presentare i poeti persiani quali io pretendo che siano i poeti italiani, e perché conosco una sciocca genia di criticonzoli che farebbero due lazzi su «la fossetta del mento» e su «la pappagorgia» e dopo questo e dopo questo soltanto sarebbero capaci di scrivere che hanno confutato la mia teoria, anzi per darsi maggiore importanza, direbbero che l'hanno superata. Essi però saranno certo pronti a gridare subito che quella era tutta un'altra mentalità, che quel metodo non ha nulla a che vedere con lo spirito e col metodo del simbolismo dei poeti italiani. Certo i poeti italiani, che avevano maggior senso di misura e maggiore classicità, erano nel loro simboleggiare assai più corretti e contenuti. Ma quando nel Convivio di Dante troviamo spiegato che gli occhi della sua donna rappresentano le persuasioni della filosofia e la sua bocca rappresenta le sue dimostrazioni dobbiamo riconoscere che la mentalità e il metodo erano precisamente gli stessi.
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Convivio Dante
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