Se solo per la Sapienza si vive, prima di acquistarla si è morti. I critici «positivi» non parlino di confusioni e di complicazioni perché, lo sappiano essi o no, di questo gioco tra la parola «vita» e la parola «morte», di questo polisenso delle due parole trabocca tutta la mistica cristiana, la quale ha continuamente giocato su queste frasi. La vita (comune) è morte (dell'anima o dell'intelletto). La morte (al mondo, alla carne, al peccato) è (la vera) vita. Soltanto chi muore (misticamente in Cristo) vive (della vera vita). I vivi (della vita comune) sono in verità dei morti. E così di seguito. Dante è tutt'altro che estraneo a questo mistico artificio. La Divina Commedia è piena di questo gioco perpetuo di significati tra la vita e la morte, e anche altrove egli tratta sempre da morti quelli che non seguono la Ragione(217).
Questo fatto deve prepararci a intendere come, qualificandosi in genere come «morte» l'errore che devia l'uomo dalla Sapienza santa e come morti quelli che lo seguono, quando si delineò un movimento che considerava la Chiesa di Roma e le sue parole come falsate dalla corruzione e dalla cupidigia, come, non più espressione vera della Sapienza santa a lei confidata, ma come deviazione ed errore, come negazione quindi di quella verità che è vita, si sia potuto attribuire per convenzione a questa Chiesa corrotta e odiata, a questa Chiesa divenuta l'antitesi di se stessa (come il Carro santo trasformato in mostro e su cui siede la meretrice è divenuto l'antitesi di se stesso, del Carro mirabile che portava Beatrice), il nome convenzionale ma espressivo di morte e il nome e la qualifica di morti a quelli che, invece di seguire la santa e pura Sapienza immortale, seguivano la temporanea corruzione della Chiesa odiata.
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