Morte, sed io t'avessi fatta offesao nel mio dir ripresa,
non mi t'inchino a pié mercé chiamando;
ché disdegnando non certo perdono.
Io so ch'i' non avrò ver te difesa,
però non fo contesa,
ma la lingua non tace, mal parlandodi te e rimproverando cotal dono.
Morte, tu vedi quanto e quale io sonoche con teco ragiono,
ma tu mi fai più muta parlaturache non fa la pintura a la parete.
Oh, come di distruggerti ho gran sete!
che già veggio la reteche tu acconci per voler coprire,
cui troverai o vegghiare o dormire!
Bello e veramente commovente il verso della penultima strofe «Non mi t'inchino a piè mercé chiamando», che ora finalmente significa qualche cosa, e qualche cosa di bello, ma assolutamente assurdo, nel senso letterale, tutto il congedo.
Il poeta infatti manda la canzone ai suoi correligionari che sono naturalmente «quei che sono in vita», i seguaci della Sapienza santa, ma, adoperando questa espressione non si è accorto di quanto essa fosse ridicola nel senso letterale perché nessuno certo pensava che la canzone potesse essere mandata ai morti in camposanto. Aggiunge che la manda a quelli che sono in vita di «gentil core e di gran nobilitate» (gli adepti), ma dà loro un compito che, se si trattasse veramente della morte vera, sarebbe assurdo e ridicolo. Essi dovrebbero ricordarsi sempre della morte e contrastarla forte, ma per quanto gentili e nobili fossero non si immaginerebbe proprio come potessero farlo contro la morte vera. Anche più inconcepibile è l'ultimo compito che dovrebbero avere questi uomini gentili, quello di fare vendetta della morte se la vedono visibile.
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Sapienza
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