Dante(303) parla chiaramente della sua nostalgiadel dolce loco e del soave fiore
che si intende per Firenze, ma alludendo al luogo dove il «Fiore» ha la sua sede. È sempre lo stesso innominato luogo «il luogo ove tien corte Amore».
In questo «luogo» la setta naturalmente giudica i suoi e li chiama molte volte a render conto del loro operato.
Quando Ser Monaldi dice: «Citato sono alla corte d'amore», quando Cavalcanti dice d'essere accusato «nel fero loco ove tien corte amore» o Cino da Pistoia scrive:
Ond'io ne son di già chiamato a corted'Amor, che manda per messaggio un dardo;
il qual m'accerta che, senz'esser tardodi suo giudizio avrò sentenza forte;(304)
tutti questi non perdono tempo con immagini sciocche e astruse, ma dicono semplicemente che devono in qualche maniera rispondere del loro operato alla setta. E Lapo Gianni si lascia sfuggire questo pensiero in forma anche più grossolana dicendo:
Data sentenza in tribunal sedendosì che per voi non si possa appellare
ad altro Amor che ve ne possa atare(305).
Naturalmente si sfruttava così la tradizione delle corti d'amore, le quali del resto anche in Provenza servirono mirabilmente a nascondere riunioni che si occupavano di cose ben più serie che d'amore, in un ambiente saturo di tragedie religiose.
Ma se si fosse trattato di una vera corte d'amore, ripeto, perché tanti misteri sul luogo, sulle persone, sul capo, sui procedimenti? Perché Dante, pur parlando tanto di certe strane «donne» che si dilettavano «l'una ne la compagnia dell'altra»(306) non ci dice nulla di questa corte d'amore?
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