par che dal cielo ogni ora abbi soccorso.
Veggio cader diviso questo regno(458)
veggio che a ogni buon convien tacere,
veggio quivi regnar ogni malegno;
e chi vi vuol suo stato mantenereconvien che taccia quel che dentro giace;
nell'alma, guerra, e, nella bocca, pace(459).
Si osservi la tragica incisività di quest'ultimo verso che riassume tanti drammi di questa vita poetica e che spiega tanti misteri di questa stranissima arte. Questo verso risponde tragicamente a quelli che nel Fiore assegnavano soltanto a Falsosembiante la possibilità di scannare Malabocca.
Ma vi è una coppia di sonetti, l'uno di Francesco Petrarca, l'altro di Cecco d'Ascoli, che rappresentano per me una delle prove matematiche dell'esistenza della setta. È una di quelle coppie nelle quali, mentre l'uguaglianza delle rime ci fa certi che i sonetti furono creati come domanda e risposta, il senso letterale dei due non s'accorda e s'accorda invece mirabilmente il senso riposto. Il sonetto di Francesco Petrarca (che doveva essere giovanissimo, perché egli aveva ventun anni quando Cecco d'Ascoli fu bruciato vivo) è alquanto oscuro per corrotta lezione, ma evidentemente egli domanda con grande reverenza a Cecco d'Ascoli, che parlando consuma il cieco errore, se egli, il Petrarca, potrà mai morire felice per l'amore di Madonna o se a questa sua felicità si opporrà «l'usato gelo», nel qual caso vuole che il sapiente astrologo gli tolga dal petto la speranza. Sembra che si tratti di una donna, ma viceversa è evidente da quel che vedremo in seguito, che si tratta della santa idea alla quale contrasta il gelo della Chiesa e che il poeta chiede se può sperare di vederla trionfare innanzi la morte,
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