Il fatto che questa testimonianza, che è la prima testimonianza concreta della realtà storica di Beatrice, venga fuori niente di meno che quasi un secolo dopo il preteso incontro di Dante e di Beatrice, ottant'anni dopo la morte di lei, cinquant'anni dopo la morte di Dante, basterebbe a svalutarla interamente soprattutto per la considerazione che gl'innumerevoli studiosi che nel frattempo si erano occupati dell'argomento, non sanno nulla del fatto. Si aggiunga che il Boccaccio presenta questa testimonianza lavandosene abilmente le mani, in quanto nel Commento dice che gli era stata trasmessa da un parente di Beatrice, che però si guarda bene dal nominare, chiamandolo soltanto: «fededegna persona». E se si dovesse credere a tutte le «fededegne persone» quando testimoniano sulle loro glorie di famiglia del secolo precedente, si correrebbero molti strani rischi. Quanto ai particolari dell'incontro di Dante con Beatrice giovinetta, essi sono facilmente inventabili e nemmeno armonizzati con il racconto della Vita Nuova perché, mentre Boccaccio ci rappresenta un Dante che fin dall'età di nove anni va in casa di Beatrice, Dante afferma nella Vita Nuova che prima che essa avesse diciott'anni, ella non gli aveva mai rivolto la parola. D'altra parte la fede che la critica realistica ama prestare al racconto del Boccaccio riguardante la realtà di Beatrice, non viene nient'affatto prestata allo stesso autore quando inventa sfacciatamente, poche pagine appresso, il famoso sogno della madre di Dante, grossolana costruzione di carattere puramente simbolico e iniziatico, dove figurano tutti i più vecchi e triti simboli, come la fontana d'insegnamento e il lauro che la ombreggia, il pastore, il pavone risorgente in gloria, tutte cose che il Boccaccio, secondo l'uso, spiega poi alla «gente grossa», impasticciandole con altro simbolismo di scarto, proprio nel momento nel quale dà a intendere di chiarirle.
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