Era il saluto «che dar sapete a chi vi face onore», il saluto del quale ciascuno «fu salutato secondo era degno». Dante, giudicato indegno, non è salutato.
XI. Dante ricorda ora gli effetti di questo saluto in lui, effetti che somigliano perfettamente a una specie di estasi, nella quale il corpo «molte volte si movea come cosa grave inanimata», mentre gli spiriti del viso (la contemplazione) erano tutti fissi nella donna e (al solito) tutti gli altri spiriti sensitivi erano distrutti.
XII. Il poeta si addolora enormemente del saluto negato. E nella sua camera, dove si è addormentato dicendo: «Amore aiuta lo tuo fedele», ha una visione. Amore bianco vestito (nella sua vera essenza) lo guarda e gli dice: «Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra». (Abbiamo dannosamente abusato di questa finzione dello schermo e ne sono nate male voci di tua infedeltà). Ma Amore piange. Piangere, sappiamo, vuol dire simulare. La setta simula di regola come aveva simulato Dante con lo schermo e quindi ragionevolmente Dante gli chiede: «E perché piangi tu?». Cioè: «Tu non simuli sempre? Non è obbligo di tutti i "Fedeli d'Amore" di mettersi in grato della religione? Non ho seguìto il tuo stesso consiglio? Non è la simulazione tua massima e norma?». E Amore gli risponde: «Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic». Dante riconosce, bontà sua, che Amore ha parlato «molto oscuramente», ma il senso della risposta d'Amore è probabilmente questo: «Io, vero e puro amore della Sapienza santa, posso simulare perché resto sempre immobile e uguale a me stesso, come il centro del cerchio che è sempre ugualmente distante dalle parti della sua circonferenza; tu però non sei altrettanto stabile e ti sei un poco lasciato trascinare dalla necessità di simulare ad allontanarti veramente dalla Sapienza santa».
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