Immaginate quella lettera che Dante si scusa di non riprodurre per una ragione così puerile, perché è scritta in latino (Poveretto! E se aveva stabilito di scrivere soltanto in volgare, non la poteva tradurre in italiano?), quella lettera avrebbe dovuto suonare pressappoco così: «O Rodolfo d'Asburgo, Imperatore di Lamagna, o Carlo d'Aragona, o Giacomo di Sicilia, o Edoardo d'Inghilterra, ascoltate! Ascoltate! È morta la moglie di Simone de' Bardi che era tanto bella e tanto gentile e della quale io ero tanto innamorato e Firenze è rimasta desolatissima...»
Vi immaginate il resto? Smettiamo di fare onta alla memoria di Dante credendo realisticamente che egli abbia scritto qualche cosa di simile. Certo è più seria, direi quasi più rispettosa, l'ipotesi del Rossetti il quale, osservando che proprio con quelle stesse parole comincia l'epistola di Dante ai Cardinali (che sono detti molte volte «Prìncipi della terra»), nella quale si descrive lo stato desolatissimo di Roma e del mondo abbandonato dalla vera dottrina di Cristo, ne dedusse che la lettera di cui si parla nella Vita Nuova sarebbe proprio quell'epistola. Ma per sostenere quest'ipotesi bisogna appoggiarla all'altra (per me del resto non affatto assurda) che la Vita Nuova, quale noi la possediamo, sia un tardo rifacimento di Dante stesso, nel quale egli avrebbe intromessi fatti e allusioni riguardanti periodi della sua vita posteriori al tempo della vera Vita Nuova. E l'ipotesi è avvalorata dal fatto che gli ultimissimi capitoli del libello si spiegano assai meglio, se si pensino scritti dopo il Convivio che prima(513).
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