Questa è la parte veramente caduca di tutte le indagini compiute fin qui in questo campo ed è la parte prodotta dalla commossa esagerazione dei primi che si trovarono a possedere la grande scoperta del gergo, non abbastanza calmi, non abbastanza sereni e oggettivi per riconoscere che la Divina Commedia, invece di allontanarsi sempre più dalla Chiesa, era sostanzialmente un riavvicinamento a essa e che il suo simbolismo era qualche cosa di ben più profondo e nello stesso tempo più artistico che non il gergo dei «Fedeli d'Amore».
3. Tracce del gergo dei «Fedeli d'Amore» nella «Commedia»
Ma se Dante nello scrivere la Commedia, pur rifacendo a modo suo la dottrina dei «Fedeli d'Amore» conserva la simbologia della Donna-Beatrice-Sapienza, è e si sente un «Fedele d'Amore» (come tutti i dissidenti e tutti gl'innovatori egli pretende naturalmente di essere la vera espressione di una tradizione o il vero rivelatore della verità), non dobbiamo aspettarci che qualche traccia del vecchio gergo, qualche ricordo di esso non spunti nella Commedia qua e là, pur attraverso il nuovo modo di simbolizzare?
Un esempio. Durante la vita di Dante, le città e i castelli d'Italia ghibellini esposti di continuo all'assalto dei guelfi erano innumerevoli. È proprio un caso che Dante, volendone citare qualcuno, ne vada a scegliere uno che non aveva nulla a che vedere con lui e con la sua vita, ma che per avventura si chiamava «Santa Fior»? O non forse, ricordandosi d'essere il consumato artefice del gergo, volle dire a chi conosceva bene le cose, che chi era esposto in Italia alle vessazioni dei nemici per essere fedele all'Impero era proprio la setta, la Santa Fior, il Fiore, la Rosa, quel «Fiore» di cui tutti costoro erano «fatti servitori»?
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