Infatti dopo aver esposto alcune interpretazioni delle più strane finisce col dire: «Che dunque più? Tenga di questo ciascuno quello che più credibile gli pare, ché io per me credo, quando piacer di Dio sarà, o con opera del cielo o senza, si trasmuteranno in meglio i nostri costumi». Bel commento, è vero? Così egli tratta i punti gravi e sostanziali, largheggiando quando e dove può in digressioni lunghissime.
Ed è per me un commento dello stesso tipo quello di Pietro di Dante il quale, sapendo benissimo che il Messo Celeste che apre le porte di Dite non è un angelo, ma non volendo nient'affatto dire chi sia, va a tirar fuori quella grossolana scempiaggine di chiamarlo Mercurio, intromettendo in questa scena piena di significato un insignificantissimo messaggero pagano.
Il Boccaccio dunque, come ognuno può vedere rileggendo il suo Commento, tutto disse in esso fuorché quello che veramente doveva sapere del pensiero profondo di Dante.
Ma il gioco non durò a lungo. Il Boccaccio stesso ne fu nauseato, e tanto più sentì viva questa nausea quando un tale a noi sconosciuto, che era molto probabilmente un «Fedele d'Amore», gli rimproverò aspramente questa contaminazione. Il Boccaccio rispose allora con i famosi tre sonetti sul suo commento, angosciosa palinodia nella quale il poeta si dichiara pentito del commento che ha fatto, pentito sì, in apparenza, perché gli duole d'avere rivelato alla feccia plebea le parti occulte del Poema Sacro, in verità perché egli sa bene di non aver rivelato nulla, si sente colpevole di avere «vilmente prostrate le Muse» adattando non tanto al volgo quanto alla Chiesa corrotta e dominante il profondo pensiero di Dante.
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