Così lasciarono consumare i tormentati corpi fino all'ultimo esito degli spiriti».
Dopo avere narrato in particolare i casi del Gran Maestro Jacopo di Molay che si disse degno di morire non per aver commesso delitti ma per essersi lasciato strappare dai tormenti false confessioni, e morì «con intrepido costante cuore né mai altro disse eccetto quanto gli altri primi avean detto», dopo aver portato di tutto il racconto la testimonianza di suo padre Boccaccio, presente all'eccidio, egli fa delle «considerazioni sulla costanza» nelle quali trova un abilissimo modo di chiamare per più volte i Templari «i nostri».
Egli infatti confrontando questo meraviglioso esempio di costanza e di forza con gli esempi tramandati dagli antichi, dice: «Molti antichi veramente non sotto un giudice, non in un istesso secolo con grandissima distanza di terre fra loro, per gli ammaestramenti della divina filosofia, o vero per acquistar gloria, durando in grandissime fatiche e sotto estremi gioghi vennero condotti a fieri tormenti. I nostri fecero altramente. Perciocché in uno stesso luogo, in un medesimo giorno furono tormentati; ebbero un solo giudice e un solo manigoldo... Che direbbero adunque quelli che si meravigliano della pazienza dei supplici degli antichi se avessero veduto la mostruosa sopportazione dei nostri? Non hanno veramente di che più meravigliarsi».
Ma ciò che è più importante è che il Boccaccio afferma solennemente che la verità sola faceva costoro di un solo animo. «Vedere sessantasei uomini non tutti d'un paese, non di costumi conformi, non dotti e ammaestrati, non accordati insieme, non avvisati, non posti in una stessa prigione.
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