La lirica procede assai più fluente, più compatta, più vicina alla commozione d'amore.
Ma il problema si viene a porre così: si tratta di un poeta che ha realmente abbandonato il linguaggio anfibologico e canta sempre puramente d'amore? Oppure si tratta d'un artista che ha talmente raffinato lo strumento della sua espressione da non lasciar più scorgere, a chi non sia bene addentro alle cose, il sottosuolo mistico che è nella poesia d'amore? Oppure si tratta di un poeta nel quale coesistono la tradizione della lirica d'amore a senso mistico, alla quale egli si appella ogni tanto e una vena più o meno larga di poesia che è pura poesia d'amore?
Si può restare incerti tra queste due ultime ipotesi, ma io escludo in modo assoluto la prima. Escludo cioè che il Boccaccio possa essere estraneo alla tradizione dei «Fedeli d'Amore» e che tra le sue liriche non ve ne siano di quelle in gergo. Lo escludo semplicemente per aperta confessione del poeta. Ho già citato infatti al principio di questo libro la canzone d'amore che Lauretta canta alla fine della quinta giornata del Decamerone, canzone in apparenza chiarissima, ma della quale il poeta dice che «notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa: et ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa. Altri furono di più sublime e migliore e più vero intelletto del quale al presente recitare non accade».
E, dopo questa confessione, padrone chi vuole intendere «alla melanese». Il Boccaccio mi dice che qui sotto c'è un senso recondito e sublime, e io, conoscendo i precedenti aggiungo mistico.
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