Consentirete che chiunque è libero di scegliere tra le due interpretazioni; io scelgo, senza esitare, la seconda.
E credo anche che si debba tornare con doverosa considerazione a un'idea del Rossetti intorno al significato simbolico dell'Affrica, ove la lotta tra Roma e Cartagine è innalzata verosimilmente a significare in segreto la lotta tra la Sapienza santa, la setta, e la «Morte», cioè la Chiesa corrotta, e dove il castello che sta sulla cima del monte Atlante (al quale Atlante il Petrarca raffigura se stesso in un sonetto) rappresenta forse la rocca del pensiero libero e puro costruita sull'uomo che apparentemente è stato trasformato in «sasso», in «pietra», dalla Chiesa corrotta, l'uomo cioè che in apparenza di sasso, di pietra, di seguace della Chiesa, porta però nell'alto della sua mente la rocca inattingibile della verità santa, alla quale egli è fedele.
In tutta la sua opera il Petrarca, come il Boccaccio, ripete l'antica idea che sotto la poesia si nasconde qualche cosa di profondo e di ambiguo che soltanto un occhio linceo può attingere attraverso il velo.
. . . . . . . . . Quaedam divina poetisVis animi est; veloque tegunt pulcherrima rerum,
Ambiguum quod non acies, ni lincea rumpat.
E dovremo credere che malgrado ciò la lirica del Petrarca sia da prendersi sempre come semplice espressione d'un sentimento?
Concludo: il Petrarca è tra gli autori che vanno seriamente ristudiati nella luce dell'ipotesi dell'esistenza di un gergo nella poesia dei «Fedeli d'Amore», perché è certo che, anche se egli cantò un amore vero, non spezzò per questo la tradizione dei «Fedeli d'Amore» e, per loro e con loro, quando era necessario e opportuno, adoperò il consueto gergo mistico settario, com'è certo che nelle altre opere coprì «con l'ambiguo velo secondo l'uso dei poeti, le cose più belle».
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