Anzitutto rileggiamolo:
Non mi poriano già mai fare ammendadel lor gran fallo gli occhi miei sed elli
non s'accecasser, poi la Garisenda
torre miraro co' risguardi belli,
e non conobber quella (mal lor prenda!)
ch'è la maggior de la qual si favelli:
però ciascun di lor voi che m'intendache già mai pace non farò con elli;
poi tanto furo, che ciò che sentiredoveano a ragion senza veduta,
non conobber vedendo; onde dolentison li miei spinti per lo lor fallire,
e dico ben, se 'l voler non mi muta,
ch'eo stesso li uccidrò que' scanoscenti!
Cerchiamo di ragionare in maniera semplice.
Il significato letterale di questo sonetto è semplicemente idiota e non credo sia necessario perder tempo a dimostrarlo. Ma poiché l'autore di esso non è un idiota, ma è Dante Alighieri, ne risulta matematicamente certo che questo sonetto è scritto per dire cosa diversa da quella che appare nel senso letterale. E siccome un sonetto di questo genere non può esser scritto se non c'è almeno un altro che intenda, il sonetto è una comunicazione segreta.
Ho già accennato a una semplicissima ipotesi: che Dante a Bologna sia venuto a contatto con un gruppo settario che non era però il maggiore dei gruppi settari ivi esistenti, che non era quella famosissima donna la quale dava «chiarezza e virtute» a tutte le fontanelle, (vd. p. 244) [VII-4] il gruppo da cui era partito il «senno di Bologna» e che si onorava del ricordo di Guido Guinizelli. Dante giunto a Bologna è venuto in contatto con una delle due sette ma non con la vera setta di Bologna, bensì con un'altra affine o dissidente, e ha espresso con questo sonetto il suo rincrescimento di non aver conosciuto la vera, antica, gloriosa setta, «la maggior de la qual si favelli».
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