Vi si dice che il poeta si vuole appellare a Dio contro la morte, che essa è fatta imperatrice, che è troppo signorile nella sua potenza mentre dovrebbe essere (pare) «provvedenza umile» (la morte?), che essa è fatta «nel mondo Vicara», che il poeta a tempo e luogo scoprirà quale punizione essa avrà nel giorno del giudizio, nel quale essa (la morte!) sarà «condannata a orribile morte»; si dice che la morte «ha preso manto di tanto arbitrio», che essa è «di ben matrigna e albergo di male», che essa è «madre di vanitade» (la morte!), che il Signore superno giudicherà «contro la sua fallanza», che starà sempre «nel fuoco sempiterno». Si dice che il poeta ha gran sete di distruggerla, «Oh come di distruggerti ho gran sete!», e si finisce con questo commiato nettamente sciocco e assurdo:
Canzon, gira' ne a que' che sono in vita,
di gentil core e di gran nobiltate;
di' che mantengan lor prosperitatee sempre si rimembrin de la morte,
in contrastarla forte,
e di' che se visibil la vedrannone faccian la vendetta che dovranno.
Ebbene, basta leggere sotto la parola «morte» la parola «Chiesa corrotta» e sotto l'espressione «quei che sono in vita» i «seguaci della santa Sapienza, i "Fedeli d'Amore"», perché questa stupidissima canzone diventi chiara, limpida, profonda, significantissima, tragica (vd. p. 195 e sgg.).
Ma avanti a questa dimostrazione sapete che cos'hanno fatto i miei contraddittori? Hanno fatto semplicemente finta di nulla! Non una parola di tutto ciò, da parte di nessuno, come se non esistessero né la canzone, né la sua melensaggine superficiale, né la sua spiegazione!
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Dio Vicara Sapienza Amore
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