Il Formichi è un orientalista, ha l'orecchio abituato al simbolismo e conosce quella poesia mistica persiana che è gemella della poesia del dolce stil novo, se pur non ne costituisce il modello, e che è scritta in gergo mistico convenzionale amoroso. Non mi fa meraviglia che egli abbia sentito immediatamente l'evidenza sostanziale della mia dimostrazione, ma egli ha efficacemente corretto un mio errore che oscurava e deturpava l'interpretazione dell'importantissimo sonetto «Deh, piangi meco» attribuito a Dante. Si tratta di quel sonetto che è per me la chiave delle canzoni Pietrose, nel quale il poeta piange sopra una pietra sepolcrale che tiene morta (ma viceversa ancor viva) la sua donna che si chiama Pietra.
Deh, piangi meco tu, dogliosa pietrapoiché s'è Petra en così crudel porta
entrata che d'angoscia il cor me impetra;
deh piangi meco tu che la tien mortach'eri già bianca ed or se' nera e tetra
de lo colore suo tutta distorta...
Il poeta continua dicendo che secondo il suo cuore la donna sotto la pietra è ancora viva e che crede di vedere che il sudore e l'angoscia già scheggiano la pietra che sta sopra alla donna.
Il significato è evidente e mirabile. La santa verità giace sotto la pietrificazione della Chiesa corrotta (che era già bianca e ora è diventata nera), che contende la verità al «Fedele d'Amore», ma che ormai è già scheggiata, già vinta dal sudore e dall'angoscia di quelli che la santa verità adorano e agognano.
Io avevo nel secondo verso interpretato quella «porta» come ferita, come dolore che l'amante riceve dalla pietra.
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