Non vorrà vedere il rapporto tra quella buffissima «Petramala» che viene fuori così di traverso e la «mala pietra» che è la Chiesa, continuerà a leggere, «si vetustissimi papienses nunc resurgerent sermone vario vel diverso cum modernis papiensibus loquerentur», credendo sul serio che Dante sia andato a pescare proprio il non affatto caratteristico dialetto di Pavia, e senza accorgersi della burla di quel papienses che sta per «Papali» (= seguaci del Pontefice) e dice una cosa ben più sapida. Leggeranno ancora come una semplice serie di vocaboli portati quali esempi di parole dolci, parole dalle quali, collegandole, emana tutto un senso assai trasparente: «Amore, donna, disio, vertude, donare, letizia, salute, securtate, difesa»; o l'altra burla sul Petrus (il Papa) che amat multum dominam Bertam (la donna stupida per eccellenza = Monna Berta).
Non intendo qui difendere il libro dello Scarlata che si difende da sé e solo deve affrontare, come tutte le tesi rivoluzionarie, la prima trincea dei gelosi specialisti, i quali sulla prima trincea tentano sempre le solite armi: disdegni altezzosi, autorevoli beffe e simili. Ma poi passeranno alla seconda, quella dove si comincia a ragionare. Intanto io vorrei solo offrire allo Scarlata un altro argomento che mi par nuovo per confermare che Dante quando condannava questo o quel dialetto non condannava affatto le parole usate in quel dialetto ma piuttosto lo spirito di quelli che lo adopravano. Nel biasimare l'esprimersi dei fiorentini egli li dileggia, respinge la loro lingua perché «dicunt: Manichiamo introque che noi non facciamo altro». Ora le due strane parole che si potrebbero rilevare in questo esempio: manicare e introque, sono tutte e due parole usate da Dante nella Divina Commedia.
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