Si parla dunque di rime nel senso di poesie. Dante ha detto di usare proprio nelle poesie molte e spesse volte i vocaboli con senso diverso da quello degli altri dicitori.
Che cosa dobbiamo intendere? Che egli facesse soltanto dei traslati comprensibili a chiunque? Ma di questi ne fanno tutti. Qualunque dicitore fa dei traslati. L'espressione di Dante non si può riferire al semplice uso di traslati, che non era una specialità sua e non avrebbe avuto bisogno di essere affermato in questo modo, e nel traslato si dà a una parola un significato affine a quello che possiede. Dante dice addirittura che «faceva li vocaboli dire altro... da quello che erano usati di esprimere».
Se l'espressione di Dante si mette accanto alle innumerevoli prove che abbiamo dell'esistenza del linguaggio segreto e convenzionale entro un gruppo di poeti, dei quali Dante è il principalissimo, le sue parole diventano ben più chiare e ben più importanti e vengono a costituire un'evidente conferma e quasi una confessione dell'uso di certe parole con significati nuovi e convenzionali nelle rime di Dante.
Dico convenzionali, perché, come potrebbe un uomo serio dare a un vocabolo un significato veramente diverso, altro da quello che è usato, altro da quello che gli dànno tutti, se di questo cambiamento di significato qualcuno non fosse al corrente?
Se dunque Dante, parlando di significati diversi e nuovi dati da lui alle parole, non ha detto in forma assai impropria una cosa molto ovvia e insulsa, cioè che usava dei traslati, ha alluso invece all'impossibilità di comprendere le sue poesie senza la chiave del gergo.
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