Ma il giovane innamorato è impaziente di vederla, e al solito, accende un lume di notte. La contempla, la vede bellissima, ne ammira il corpo meraviglioso, ma ella si desta e immediatamente si trasforma in serpe e fugge. È la dottrina della verità che si tramuta in errore e dolore per chi pretenda di vederla prima del termine stabilito per l'iniziazione completa.
E l'autore termina dantescamente:
O voi, che haveti li argumenti sani,
guardati l'altra parte che se ascondesotto il velame delli versi strani;
vedeti ben la casa, il prato, et l'onde,
il bosco, e lochi dirupati e altani,
et la serpe, che chiamo et non responde,
et sciapereti qual fu mia ventura,
et quanto sia mia sorte hora e aspra e dura.
Dopo di che è scritto: Finis. Philomatis Furtum. Il che vuol dire: è stato questo un «furto di colui che ama la Sapienza».
Il poemetto è, ripeto, posteriore all'epoca sulla quale ho fermato la mia indagine, ma dimostra evidentemente che il romanzetto poetico-amoroso ha servito indubbiamente nella nostra letteratura a nascondere dottrine iniziatiche che erano pressappoco le stesse dei «Fedeli d'Amore».
E la sua derivazione dal metodo e dall'ambiente dei «Fedeli d'Amore» è indubitabile per questo semplice fatto che, se l'ultima strofe contiene dei versi di Dante, la prima riprende tale e quale una formula (e stranissima) di Francesco da Barberino.
Francesco da Barberino nella sua famosa canzone «Se più non raggia» dice che egli è costretto a parlare oscuramente perché a questo lo ha ridotto la fortuna (la Chiesa avversa e imperante).
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