Dopo la sentenza i signori Thompson e Ehrmann, della difesa, furono i primi a stringermi la mano e congratularsi.
Potei salutare la signora Evans e molte donne americane che vennero alla gabbia per salutarmi e congratularsi. Nel frattempo un vecchio prete, non potendo avvicinarmi, mi gridò da lontano: «Bravo Vanzetti, hai parlato bene»; e ieri mattina mi venne a salutare chiamandomi «compagno».
Ho letto, sui ritagli di parecchi giornali di Boston e di New York, la cronaca della seduta. Ci sono tutti favorevoli; riportano quasi interamente quanto abbiamo detto; dicono che mai nella storia di questo Stato e di questa nazione dei condannati a morte hanno ascoltato la sentenza come la ascoltammo noi, né agito né parlato come noi. Io, poi, sono dichiarato un vero oratore.
Il New York World, riporta le parole del professore in diritto Felice Frankfurter, che disse che nessun altro discorso lo ha commosso come il mio e che al confronto della mia eloquenza quella forense del senatore Borash e del giurista Butler sono fredde inanimate come delle brutte copie di memoriali.
Il piú sorpreso dei sorpresi sono io perché per me la mia chiacchierata fu infelice, dato che non dissi il piú importante. Ma chi lo sa, forse potrò parlare ancora altre volte; allora avrebbero ragione di meravigliarsi, ora no. Ad ogni modo le mie parole, che potranno avere grande influenza sulla storia, ma non sulla causa, contano poco in rispetto a questa ultima.
Voglio anche dirvi che non dovete credere che siamo trattati male.
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