State sano. Di Verona, il 1 aprile, 1570.
VII.
Martino Sassi al m. magnifico sig. Alfonso.
La lettera di V. S. del 1.° aprile passato mi ha dato piacer grande; e maggiore sarebbe stato s'ella non si avesse preso tanto a petto il mio tacere, causato più tosto da modestia, che da trascuraggine, e per volere, come si usa di fare, per ogni poco di cosa stordir le orecchie agli amici e signori, come mi è, e sarà sempre V. S. E certamente che se altri che essa mi ricercasse, io non mi curerei di rispondere, avend'io quasi deliberato fra me di non voler ragionare, nè di ciò che V. S. mi scrive, nè d'altra cosa appartenente a questa virtù, non perchè io non la stimi, o non me ne faccia pregio, ma per volere che li miei studi siano da qui innanzi per diletto mio solamente proprio e particolare; poscia che per tanti antichi e moderni esempi si prova che niuno, per valoroso ch'egli divenga, è mai accetto nella sua patria. Ma a V. S. non posso, nè voglio mancare di ubbidire, perchè ne son debitore ai molti e grandi meriti suoi, ed all'amor che mi porta.
Narrerò dunque molto minutamente le cose successe con M. Pellegrino, che così ha nome il nuovo architetto di questo nostro duomo; ma forse più lungamente ch'ella non vorrebbe, non potendo io con poche parole soddisfare al desiderio suo ed a ciò che conviene.
E primieramente, Euclide imitando (poichè d'architettura e di prospettiva si ha da trattare), il quale innanzi che venga alle sue dimostrazioni, dice, com'ella sa meglio di me, dimandasi che si conceda di tirare una retta linea dall'un punto all'altro, ed allungarla quanto ci piace; e così va seguendo: dico che dovendo io, poco atto e poco esercitato scrittore, distintamente narrare il fatto come sta, e per li termini di prospettiva e di architettura, bisogna che mi si conceda ch'io sia nato in Milano e non in Toscana, ch'io sia giovane e non vecchio, che io sia più tosto timido che ardito.
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