Padrone, come fo, con determinazione che questa abbia a essere l'ultima volta ch'io te ne scriverò; e tanto lo fo adesso, quanto che, trattandosi d'una materia assai delicata, quanto si è questa di aver mal servito il padrone, non basta il saperlo o il crederlo in sè, ma bisogna procurare che lo credano e lo sappiano gli altri, o almeno non credano il contrario. Per altro ti prometto sull'onor mio che quando il quadro non avesse sofferto l'infortunio, al quale l'ha sottoposto la mia disgrazia (intorno a ciò t'ho scritto già tutto quello ch'io potevo scriverti), io ne sarei lietissimo, checchè se n'è creduto costà; perchè so che dopo che averà avuto luogo la critica, e che l'orecchie averanno perduto il suono, e la tintillazione degli scudi due mila, il quadro sarà bellissimo. Non è questa la prima volta ch'è succeduto così all'opere del Domenichino, anzi questa sarebbe la sola delle sue opere grandi alla quale non fosse succeduto; ma venghiamo a noi. Tu sai che la prima volta ch'io ti scrissi di questo quadro, ti dissi ch'a terminare questo negozio m'aveva dato un grandissimo fastidio l'esser certo che ne sarei stato censurato alla pancaccia, e che al sentire che io avessi speso scudi due mila in quadro di tre figure, mi si sarebbe fatto addosso un processo di fellonia; onde tu puoi credere che se dopo queste considerazioni, che averebbono operato assaissimo in una persona che amasse più il proprio grido, che il buon servizio del padrone, l'ho fatto, e l'ho fatto per il granduca, ch'io ci abbia conosciuto qualche grande avvantaggio, o almeno di non far male.
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Domenichino
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