Piegavasi Luigi alle prave loro macchinazioni, e volendo egli stesso discendere sovra i rubelli, imponeva a Sciomon governator di Milano di chiudere agli ammutinati ogni comunicazione cogli stati lombardi; e a Galeazzo di Salazar, comandante del Castelletto, di travagliare la città. Egli adunque, sceso in dí festivo sulla contigua chiesa di San Francesco, menò molti prigioni, e il porto e la città bersagliò per più giorni, forando i caseggiati, le navi affondando. A tanta desolazione dolorò la moltitudine, e spedì messi al Pontefice per far piegare a più miti consigli l'irato animo di Luigi. Ma del placarlo fu nulla, vana tornò l'opera di Giulio secondo, il quale aspreggiato dalla ripulsa, impugnato il ferro, meditò la indipendenza della patria e la cacciata de' barbari che scendono a calpestare con orme profane questa terra del dolore e del genio.
Correva il 20 marzo (1507), e un decreto tribunizio dichiarava nemico il Francese e intiera e legittima la propria libertà proclamava. Il giglio sordidato di fango e tratto a vitupero per i rioni della città, cacciati i presidii, ingrossati gli animi de' popolani. Difettava però ancora la moltitudine d'un duce che esperto tirasse a sé la cosa pubblica, e guidasse le schiere contro le armi francesi che stavano per rovesciarsi sulla misera Genova. Ogni voto cadde sopra un povero tintore di seta, Paolo Da-Novi, come colui ch'era stato conosciuto nelle passate rivolture abilissimo strumento a dirigere il popolo. Uomo infatti piú destro e di maggior ardimento non poteasi in tanto uopo trovare.
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