Caccie, tornei, canti di menestrelli, tutto ciò che l'età di mezzo aveva di piú poetico, e l'impero d'Ottone il Grande di piú splendido, andava a gara per celebrare le imminenti nozze di Adelassia sua figliuola.
Tutto era festa, ma un'anima sanguinava profondamente. La giovanetta assistea a quelle danze, a quelli spettacoli, come altri assisterebbe ai preparativi d'un supplizio, ai propri funerali. Dall'alto delle sue torri guardava con invidia la villanella tornar cantando al rustico casolare; ed avrebbe scambiato volontieri il suo splendido vestimento, le aurate sale de' suoi castelli con quella povertà onesta, contenta, libera, paga del sorriso d'un bel cielo e delle ghirlande della natura. — Ma questa corona, dicea fra se stessa nell'uscir da una festa e raccogliendosi sola nella sua camera, questa corona è pur di ferro sulle mie tempia! pesa orrendamente sulla mia vita, perfino sui miei pensieri! — e premea la destra immagrita sulla fronte che le ardea come per febbre. Sorgea in piedi, correa a passi concitati, poi di subito rattenendosi e fissando gli occhi al pavimento con terribile immobilità:
— "L'altare è pronto, ma la vittima non deve essere immolata. Ad Ottone, i scettri della terra: a me, i miei pensieri, il mio cuore, questo cuore che diverrà polvere, ma schiavo non mai! — Oh s'ei mi amasse! eslamò quindi con entusiasmo ineffabile, stringendo le mani al petto, irraggiandosi nel volto e nelle pupille, nell'espressione dell'anima assorta tutta in una sola speranza, in un'imagine di paradiso: — Oh s'ei mi amasse!
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Ottone Adelassia Ottone
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